Nel mondo, in media, il 50% della forza lavoro è impiegata in agricoltura, con grandi variazioni da un paese all'altro: il 64% in Africa, il 61% in Asia, il 24% in Sud America, il 15% nell'Europa orientale e negli stati ex URSS, il 7% in Europa occidentale e meno del 4% in Canada e USA.
Lo sviluppo tecnologico fa diminuire la forza lavoro necessaria ed il prezzo delle materie prime, ma solo per economie di scala. I piccoli proprietari non possono permettersi i grossi investimenti richiesti da questo genere di agricoltura, e si assiste quindi alla continua diminuzione delle aziende agricole a conduzione familiare e all'affermarsi di poche grandi imprese.
Mentre nel passato vi era una simbiosi tra la coltivazione della terra e l'allevamento di animali, a partire dagli anni '50-'60 si è sviluppata in Europa (sulla scia di quanto avveniva negli Stati Uniti) la zootecnia intensiva, in cui gli animali vivono in grandi capannoni senza più alcun legame con la terra, e i mangimi vengono acquistati all'esterno, spesso anche da altri continenti.
Le tecnologie che hanno consentito questa trasformazione in allevamenti "senza terra" sono state: l'introduzione dei mangimi complessi e integrati, un'unica miscela di sostanze nutritive e farmaci; la realizzazione di strutture più razionali e igieniche; l'uso della chimica negli allevamenti, sotto forma di farmaci, vaccini, antiparassitari, che vengono somministrati agli animali non quando necessari, ma costantemente, come forma di prevenzione.
I prodotti della zootecnia costano poco sul mercato, ma se la produzione avvenisse in modo sostenibile (dal punto di vista ambientale, della salute del consumatore, e del benessere degli animali), i costi sarebbero almeno triplicati. Va considerato che l'attuale sistema non sopravvive senza le sovvenzioni pubbliche: quello che il consumatore non spende al momento dell'acquisto, lo spende quando paga le tasse, in forma di sovvenzioni agli allevatori.