Le colpe della FAO

Le colpe della FAO

(Fonte: "Ecocidio", J. Rifkin; Ed. Mondadori, 2001)

La produzione di sementi, di sostanze chimiche per l'agricoltura, e di carne bovina si concentra, come ben spiega Jeremy Rifkin in Ecocidio, in poche aziende multinazionali che hanno in pratica il monopolio, o perlomeno il controllo, dei macelli e dei canali di commercializzazione e distribuzione. Tali società magnificano, ovviamente, i vantaggi derivanti dal consumo di carne bovina in campagne pubblicitarie destinate ai paesi del Sud del mondo. Il messaggio che passa lega sempre il prestigio sociale e nazionale alla possibilità di accedere al consumo di alimenti status symbol, quali appunto la carne. Rifkin illustra il concetto, rafforzato da una citazione del "Farm Journal", di salita sulla scala proteica costituita dalle varie specie di animali da reddito, a partire dal "rozzo" maiale fino a giungere ai bovini allevati a cereali. Una simile manovra di persuasione si sviluppa senza dubbio verso la massima promozione degli interessi degli allevatori e degli agricoltori occidentali.

Nel 1971, la FAO pubblicò un rapporto che incoraggiava le nazioni in via di sviluppo a sviluppare il mercato dei cereali destinati agli animali, suggerendo a chi produceva prevalentemente riso di passare a cereali inferiori.

Molte nazioni, ricorda l'economista USA, applicarono quindi la strategia suggerita dalla FAO e passarono dalla produzione di cereali per l'alimentazione umana alle coltivazioni per gli animali e della catena di montaggio che si conclude con la produzione di carne bovina. Una simile strategia ha condotto, in virtù anche degli aiuti alimentari concessi in cambio della conversione dell'agricoltura da parte dai governi occidentali, in particolare degli Stati Uniti, a un aumento invece che a una diminuzione dello stato di denutrizione fra le nazioni a basso reddito.

Si è creato così, per esempio, continua Rifkin, il paradosso della carestia in Etiopia nel 1984, quando, mentre migliaia di persone morivano di fame, la maggior parte dei terreni agricoli di tale paese erano destinati alla produzione di mangimi a base di semi di lino, di cotone e ravizzone, da esportare in Gran Bretagna e in altre nazioni europee. Attualmente, sottolinea l'autore di "Ecocidio", milioni di ettari di terreno sono utilizzati solo per produrre mangime destinato al bestiame europeo.

Frances Moore Lappé, anche lei autorevole economista USA, ha rilevato come, già nel 1979, se i 124 milioni di tonnellate di cereali e soia destinati all'alimentazione degli animali fossero stati convertiti in denaro e cibo per il consumo umano, avrebbero fornito l'equivalente di una ciotola di cibo al giorno per ogni essere umano del pianeta, per un intero anno.

Il risultato di tante azioni mosse esclusivamente dalla logica del privilegio e dalla ricerca ossessiva del massimo profitto, basate sullo sfruttamento e sull'espropriazione si esemplifica oggi nell'amplissimo divario alimentare tra gli abitanti del pianeta. Rifkin riporta le sconcertanti disparità che intercorrono tra la quantità annua di cereali consumate da un asiatico adulto (130-180 kg) e da un americano medio (più di 1000 kg, l'80% dei quali tramite il consumo di carni di animali, nutriti a cereali) e ricorda come, su base quotidiana l'asiatico medio consumi 56 grammi di proteine, di cui solo 8 di origine animale, mentre l'americano medio ne consuma 96, di cui 66 di provenienza animale.

L'imposizione del modello occidentale, con gli incentivi all'espansione e alla creazione di allevamenti e lo sfruttamento dei terreni e delle risorse, umane e naturali, ha dato luogo a una gravissima crisi alimentare di proporzioni planetarie. Rifkin illustra con un ragionamento lineare e sorprendente nella sua lucidità come stiamo consumando arbitrariamente le ricchezze del pianeta attraverso un intermediario (suo malgrado) animale: il manzo.

Nella nostra posizione di consumatori di carne, volontariamente o no immersi nell'ottusa convinzione del diritto a nutrirci di animali, non vogliamo infatti vedere le conseguenze più evidenti di quella che Rifkin definisce "cultura della bistecca", conseguenza rappresentata dai milioni di persone rese ancora più povere dal nostro arricchimento, che lottano nel tentativo di procurarsi un pasto, e ne rimaniamo distanti, come se le nostre preferenze alimentari (che sono scelte e non necessità) non avessero alcun effetto sulle esistenze altrui e sull'equilibrio mondiale.

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